Rayan e Alfredino

08/02/2022 - di Paolo Tagliaferri

Ci sono tragedie che non possono essere cancellate ma restano indelebili nella memoria collettiva o almeno in chi mantiene ancora un minimo di empatia e di umanità verso i propri simili. Singoli episodi che, per quanto dispersi in un mare di fatti di cronaca inquietanti, restano comunque incisi nella profondità delle nostre anime, lasciando non di rado un senso di vuoto e di dolore. Ci rammentano, se ancora ce ne fosse bisogno, che la nostra fragile vita può sfuggirci di mano in ogni momento della nostra esistenza. I nostri affetti e i nostri cari che possono essere travolti senza preavviso dall’imprevedibile e dalla spietatezza degli eventi. Un mondo che sempre più spesso ci appare avvolto nell’opacità di una inumana disperazione, travolto da ingiustizie insanabili e da un dolore profondo che la pandemia degli ultimi due anni ha solo reso più visibile e palpabile, contribuendo semmai a renderci più consapevoli della nostra fragilità e delle nostre inesorabili insicurezze. In queste ore è arrivata la notizia del tragico epilogo del tentativo di salvare il piccolo Rayan che per ben cinque giorni ha tentato di resistere con tutte le proprie forze nell’oscurità e nello sconforto a 32 metri sotto terra. Il corpo minuto di un piccolo bambino di soli 5 anni precipitato nelle tenebre di un pozzo mentre stava giocando spensierato con il padre davanti a casa, nel villaggio di Tamrout in Marocco. Un dramma atroce che inevitabilmente ha riportato indietro le nostre menti a quanto accaduto oltre 40 anni fa a Vermicino, poco a sud di Roma. La storia del piccolo Alfredino Rampi che, ogni volta che ci imbattiamo nella sua foto in cannottierina a righe mentre sorride spensierato, ci riscaraventa a quei giorni di angoscia dove un’intera nazione si era fermata nella speranza del miracolo mai arrivato. La tragedia di Rayan ha colpito profondamente il Marocco. Ogni tentativo di scavare un pozzo parallelo e una galleria per raggiungerlo e metterlo in salvo in tempo, sono risultati vani. L’ostinazione e l’impegno dei soccorritori che oggi, come 40 anni fa, si è trasformata con il passare delle ore in frustrazione e senso di impotenza. La natura che inghiottisce ed abbraccia mortalmente nelle viscere più profonde le proprie anime più belle, i propri figli prediletti e ancora puri, che mai avevano temuto di doversi guardare da quel pericolo nascosto ed imprevedibile. La cronaca di questi giorni che ci narra, ancora una volta dopo tutti questi anni, della corsa contro il tempo, ostacolata dalle rocce e dalla terra che frana, dagli imprevisti, mentre volontari ed esperti si danno il cambio senza sosta, anche scavando a mani nude. Il padre disperato del piccolo Rayan che non perde la speranza e che solo poche ore prima aveva raccontato che sabato mattina gli aveva parlato anche se aveva sentito che il bambino respirava a fatica. Un padre e una madre inermi e inconsolabili in attesa a pochi metri dal proprio bambino che soffre e che chiede aiuto, che sentono lamentarsi per il dolore, ma che nulla possono contro la crudeltà degli eventi. I soccorritori, gli speleologi e le forze marocchine sono riusciti a raggiungere il bambino attraverso un tunnel ed a portarlo fuori dal pozzo. Rayan viene estratto ancora vivo e viene avvolto in una coperta termica fino all’ambulanza. Ma poco dopo il comunicato ufficiale sopisce ogni gioia. E’ il Re Mohammed VI che ha il compito di comunicare alla nazione che il bambino è morto a causa delle ferite riportate durante la caduta esprimendo le proprie condoglianza alla famiglia. Un epilogo tragico e crudele così come avvenne 40 anni fa a Vermicino. Una diretta senza sosta del TG1 che tenne in ansia una nazione intera fra il 10 e il 13 giugno del 1981, mentre una folla fin troppo caotica si assiepava intorno al pozzo in cui era caduto il piccolo Alfredino. Giunsero anche allora sul posto speleologi, esperti, uomini esili e volenterosi pronti a tutto pur di tentare di raggiungere il bambino che con il passare delle ore era sprofondato a circa 60 metri di profondità. L’allora Presidente Sandro Pertini giunse nella campagna romana commosso e agitato anch’esso nella speranza che di lì a poco sarebbe avvenuto il recupero del bambino. Ma anche allora le ferite causate dalla caduta e gli interminabili giorni trascorsi nella profondità del pozzo non diedero scampo a quella piccola creatura. Qualche mese fa, ad ottobre 2021, si è spento all’età di 77 anni nella casa di riposo San Giuseppe a Nettuno, uno dei soccorritori di Alfredino che tentò di tutto per portarlo in salvo, sfiorando il miracolo. Nel giugno 1981 Angelo Licheri, 36 anni, tipografo di origine sarda, piccolo di statura e molto magro, appresa la notizia dalla televisione, si diresse a Vermicino chiedendo ed ottenendo di farsi calare nel pozzo. La cronaca di allora narra che in tutto Licheri rimase a testa in giù 45 minuti, contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in posizione corporea capovolta. Quando usci dal pozzo non si reggeva in piedi e fu portato d’urgenza all’ospedale dove si riprese solo dopo qualche settimana. Ma anche lui dovette tornare in superfice senza Alfredino. Era riuscito a raggiungerlo, cercando prima di imbracarlo e poi di prenderlo di forza prima sotto le ascelle e poi per le braccia, ma il bambino continuava a scivolare per via del fango che lo ricopriva e anche i tentativi di Licheri furono vani. Resosi conto dell'impossibilità di liberare il bambino in quella posizione innaturale, anche lui si arrese e ritornò in superficie senza Alfredino. “Ciao piccolino", furono le parole che disse al piccolo prima di doversi arrendere, ricordò Licheri in seguito. Una vicenda che lo segnò per sempre. In una intervista di pochi anni fa a “La Stampa”, quando Angelo Licheri era orami malato di diabete e su una seggiola a rotelle, aveva ricordato che a Vermicino era tornato tante volte senza però mai liberarsi da quell’incubo che lo perseguitava. Nei suoi sogni rivedeva il pozzo alle proprie spalle, ma quando si girava c'era sempre quel buio, e si svegliava freddo come un morto. La storia che si ripete implacabile ed inesorabile, dove anche lo sforzo collettivo di una nazione non riesce a interrompere l’infausta crudeltà degli eventi. Un incubo che fa riemerge ricordi lontani e mai dimenticati. Il viso di un bambino sorridente ed allegro che ci guarda con la purezza che solo un bambino può avere, oggi come allora.