Aborto negli USA: una storia scandita dalle sentenze della Corte Suprema

di Paolo Tagliaferri - 26/06/2022

Norma McCorvey, alias Jane Roe (pseudonimo usato durante i processi) proveniva da una adolescenza travagliata nella sua nativa Louisiana. Sposata all’età di 16 anni con un uomo violento, aveva avuto già due figlie e, rimasta incinta del terzo, intraprese la sua battaglia per il riconoscimento della sua volontà di non proseguire la gravidanza indesiderata. Il procuratore generale del Texas, Henry Menasco Wade, stato in cui viveva al tempo Norma, confermò il divieto. Supportata da un team di avvocati agguerriti, il suo caso giunse fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti con la richiesta di riconoscerle il diritto ad abortire anche in assenza di problemi di salute, suoi o del feto o di ogni altra circostanza che non fosse unicamente la sua libera scelta. La storica sentenza federale del 1973, conosciuta dunque come Roe contro Wade, ritenne le ragioni della donna meritevoli di essere accolte in base ad una lettura estesa del quattordicesimo emendamento sul diritto alla privacy. L'interesse del Governo degli Stati Uniti di proteggere la vita prenatale, sentenziò la Corte, non poteva prevalere sulla libera scelta della donna di abortire. Una sentenza storica e rivoluzionaria che decretò la fine del divieto di abortire negli Stati Uniti, fino ad allora permesso solo nei casi di pericoli per la gestante o per il feto, stabilendo il diritto costituzionale all'aborto come libera scelta individuale.

Ma in questi 49 anni il legislatore federale americano non ha mai legiferato in materia ed ancora oggi non esiste una legge federale negli Stati Uniti che regolamenti l’aborto. Sembrerà assurdo, ma in questi cinquant’anni anni tutto si è basato esclusivamente su questa sentenza della Corte Suprema e non su una legge emanata appositamente dai rappresentati del popolo. Ognuno dei 50 stati dell’Unione è andato di conseguenza in ordine sparso, legiferando in base ai fondamenti ideologici della maggioranza politica che governava il singolo stato. Le aree cosiddette liberal del paese, concentrate negli stati popolosi del New England nella costa atlantica del nord e della costa affacciata sul Pacifico (California, Oregon e Washington State) hanno esteso sempre più il diritto all'aborto, arrivando ad emanare, in alcuni casi, anche leggi che consentono il “late term abortion", ovvero l’interruzione libera della gravidanza dopo la 15a settimana. Si stima che nel 2015 negli Stati Uniti circa l'1,3% degli aborti sia avvenuto dopo la 21a settimana e quasi l’1% dopo la 24a settimana. Al contrario, gli stati conservatori del Mid-West, gli stati centrali rurali e soprattutto tutta la fascia della cosiddetta “Bible Belt” (la “cintura della Bibbia” ovvero gli stati conservatori del sud ad alta percentuale di cristiani protestanti ed evangelici, dalla Georgia fino al Texas compreso lo Utah mormone), hanno legiferato in maniera opposta, in alcuni casi rivendicando il principio del “fetale heartbeat”, che proibisce ai medici di eseguire la procedura di interruzione volontaria della gravidanza dopo che è stato rilevato un battito cardiaco fetale. Nel 2020 il numero degli aborti negli USA ha raggiunto la cifra considerevole di 930.000 e si stima che una gravidanza su cinque si è conclusa in aborto.

La nuova sentenza Dobbs contro Jackson, pubblicata il 24 giugno scorso, ha stabilito che l'aborto non possa ritersi un diritto Costituzionale in quanto trattasi di un diritto non enunciato espressamente nella Carta Costituzionale. I diritti non enunciati, ovvero interpretativi, sono ammessi, sentenzia ora la Corte, solo se sono da ritenere impliciti nella Carta Costituzionale ovvero già fortemente radicati nella storia e nelle tradizioni degli Stati Uniti. La Corte ha ritenuto, con una interpretazione letterale del testo costituzionale, che l’aborto non può essere ritenuto un diritto implicito in quanto non profondamente radicato nella storia e nelle tradizioni nazionali. La Corte Suprema rinvia di conseguenza al legislatore federale il compito di emanare una specifica legge che regolamenti finalmente questa delicata, controversa e divisiva materia. La nuova sentenza è scaturita dal ricorso presentato dal capo del Dipartimento per la salute dello stato del Mississippi, Thomas Dobbs, che nel giugno del 2020 si era appellato alla Corte Suprema contro la decisione di un Tribunale dello stato del Mississippi che aveva dato ragione alla Jackson Women Organizzation contraria alla legge di quello stato che impedisce l'aborto dopo la 15a settimana, e che doveva però ritenersi incostituzionale. Dunque, come era avvenuto nel 1973 per Roe contro Wade, dopo 49 anni la storia si ripete, questa volta in maniera opposta, nella sentenza che passerà alla storia come Dobbs contro Jackson. E anche in questo caso ha pesato molto l’inclinazione ideologica dei componenti della Corte, attualmente composta da 6 giudici conservatori su 9, dunque in netta maggioranza, compresi i tre nominati da Donald Trump durante la sua presidenza. Nomine ratificate dal Senato federale non senza polemiche e contrapposizioni ma che già allora preannunciavano l'imminenza di una possibile revisione della sentenza Roe contro Wade.

Tutto potrebbe essere dipanato finalmente attraverso l’emanazione dei una specifica legge federale, ovvero valida per tutti i 50 stati dell’Unione, che possa rimettere ordine nel caos attualmente imperante. Ma i numeri in parlamento non ci sono. I democratici non hanno nessuna possibilità di far passare una legge in senso abortista e il partito repubblicano, arroccato sulle proprie posizioni oltranziste, non ha alcun desiderio di giungere ad un accordo. Nelle elezioni di medio termine del prossimo novembre, i conservatori con ogni probabilità riprenderanno il controllo sia del Senato che della Camera dei rappresentanti, favoriti dalla estrema debolezza politica dell'attuale amministrazione Biden. Nulla cambierà e gli animi, già surriscaldati oltre ogni limite, si faranno incandescenti. Sul tavolo non c’è solo l’aborto, ma anche il controllo delle armi comprese quelle d’assalto, le legislazioni su ambiente, energia e migranti, l’annosa ed irrisolta questione raziale e delle minoranze e la pena di morte. Su una sola questione sembrano andare d’accordo, la guerra e il rafforzamento delle forze armate. Ormai è una lotta senza esclusioni di colpi fra le due ali politiche americane sempre più estreme e radicalizzate. Una polveriera pronta ad esplodere in cui l’assalto a Capitol Hill del gennaio 2021 dopo l’elezione di Biden e i tumulti in molte metropoli a seguito dell’uccisione da parte della polizia di George Floyd ne è stato solo un tiepido assaggio.

La nuova sentenza sull’aborto avrà un impatto enorme, culturale e legislativo dalle conseguenze imprevedibili per la società americana. Ogni singolo stato emanerà leggi sempre più estreme, da una parte e dall’alta. Le diverse posizioni ideologiche, già estremizzare su tutti gli altri temi, si allontaneranno ulteriormente. Un solco insanabile. Ci sarà sempre più spazio per le frange più radicali ed intransigenti. Due anime di una sola nazione che non riescono più a accordarsi su nulla e che ormai si considerano nemiche giurate. Il rischio di una guerra civile è ancora molto lontano e forse è improbabile ma la storia insegna che non sarebbe neppure la prima volta. Fra schiavisti ed antischiavisti, suddisti e nordisti, si dovette arrivare ad uno scontro armato e sanguinoso fra le due opposte ideologie e interessi economici per risolvere la disputa. La Guerra di Secessione, combattuta fra il 1861 e il 1865, lasciò sul terreno oltre 500.000 americani. La schiavitù degli afro americani fu finalmente messa al bando ma le tensioni rimasero e perdurarono a lungo e ancora nel 1960, in molti stati del Sud, vigeva una sorta di Apatheid. Nulla è perciò più escluso in un paese schizofrenico e nevrotico per giunta con oltre 400 milioni di armi in mano ai privati cittadini e che ancora in molti in giro per il mondo continuano, immeritatamente, a considerare la democrazia più avanzata del mondo.